Mettere in piedi una comunità su internet richiede una serie di circostanze tecniche e sociali che solo in parte possono essere programmate. La piattaforma software è in fondo la componente più semplice da implementare; la parte davvero difficile è l’individuazione dell’elemento aggregante, la ragione sociale che porterà gli utenti ad iscriversi ed utilizzare il servizio. Per il primo Facebook fu probabilmente l’idea di riallacciare i rapporti con amici e conoscenti persi di vista; per il fu Twitter l’idea di seguire ogni sospiro del proprio V.I.P. preferito; per Instagram… boh… ho una mia idea ma sarebbe indelicato postarla qui.
Proprio questo elemento d’aggregazione, anzi più precisamente la sua carenza, spiega a mio avviso i ripetuti insuccessi di chi si è lanciato nel mondo dei social network per poi scoprire che l’impresa era tutt’altro che facile. Fallimenti a raffica che hanno coinvolto tanto le piccole start-up quanto i colossi del web; Pensate solo ai fallimenti di Google in questo campo: Jaiku, Orkut, Google Buzz, Wave ed ovviamente Google+.

Su questa strada lastricata di buone intenzioni ma popolata di insuccessi si muovono anche i social network non commerciali che nella gran parte dei casi hanno come unico tema d’attrattiva l’essere alternativi ai colossi del settore. Spesso anzi si ha la sensazione di una minestra riscaldata che non introduce nulla di veramente nuovo ma ripropone schemi e modelli già visti da tempo con l’unica variante del noi però siamo buoni. La mia personale avventura in questi network è iniziata attorno al 2010, poco dopo la presentazione del progetto Diaspora* che può giustamente essere considerato l’archetipo del social network distribuito e federato, quello che oggi con un neologismo viene indicato come fediverso. Diradai progressivamente la mia presenza fino ad annullarla man mano che la sensazione di Deserto dei Tartari diventava pervasiva. A volte sembrava davvero mancassero solo i rotolacampi a certificare l’assenza di vita in questi luoghi. Ne più ne meno a pensarci bene di ciò che era diventato Google+ alla fine del suo percorso: un grande contenitore di account ma desolatamente vuoto di contenuto.
Ci ho riprovato varie altre volte, girovagando per piattaforme tutte sulla carta stupende e tutte immancabilmente semi-deserte. Mentre in molti casi si è trattato solo di provare qualcosa di potenzialmente interessante, su Mastodon avevo puntato con maggiore convinzione. Ne parlo al passato ormai perché alcuni giorni (o sono settimane?) fa ho eliminato l’ultimo account che ancora tenevo aperto e che non aggiornavo da un tempo indecentemente lungo.
Ciò che sto per dire non mi entusiasma e sono certo che moltissimi là fuori sarebbero in disaccordo, ma sia Mastodon in particolare sia il fediverso più in generale sono già in crisi di numeri; e se possibile la situazione dello spicchio italiano di questo mondo sta ancora peggio. Partendo dai dati di FediLAB [1] possiamo osservare che a fronte di un numero di iscritti elevato -circa 16 milioni di account- quelli attivi risultano poco più di un milione. Numeri che vanno benissimo se l’obiettivo è quello di creare piccole comunità tematiche, assai modesti invece se l’intento è quello di proporsi come soluzione concorrente ai grandi network.
Lo stato del fediverso italiano
Se spostiamo l’attenzione sulla parte del fediverso che usa la lingua italiana come primaria, la situazione diventa ancora più desolante. Quello che si autodefinisce la principale istanza Mastodon italiana a fronte di oltre 75 mila iscritti ha solo poco più di 6 mila utenti attivi nell’ultimo mese, dopo aver brevemente toccato punte sull’ordine dei 10 mila. Nel leggere questi dati occorre tener conto che un utente è considerato attivo se effettua un login a prescindere dal suo reale livello di interazione con il network. Tradotto in altri termini l’istanza è popolata da qualche centinaio di utenti molto attivi e generalmente molto compatti sulle tematiche. Per chi si rispecchia in quella scala ideologica è un luogo quasi perfetto, la più rassicurante e rafforzativa delle echo chamber. Per tutti gli altri l’effetto centro sociale radicalizzato è dietro l’angolo, e questo nonostante la presenza di diversi personaggi molto noti del web italiano che da soli dovrebbero favorire la diversificazione dell’utenza.
La seconda istanza italiana, incentrata sui video games, viaggia sui 7 mila iscritti e poco più di 1500 utenti attivi nell’ultimo mese. Il resto del fediverso italiano si disperde in decine di istanze molto piccole dove spesso le tre cifre tra gli utenti attivi non si raggiungono neppure alla lontana.
Quel che forse è peggio sono le tendenze, il fatto cioè che queste istanze non registrino significativi flussi di nuovi utenti se non i corrispondenza di qualche occasionale ondata di indignazione contro i grandi social commerciali.
Prevengo una obiezione che potrebbe sorgere spontanea se davvero state leggendo ancora questo articolo: la federazione non compensa che in parte la scarsità di utenti nelle singole istanze. Sulla carta tutto il fediverso dovrebbe essere connesso in un solo grande social network capace di integrare non solo istanze diverse di una stessa piattaforma ma anche piattaforme diverse purché progettate per interagire. Affascinante sulla carta, ma poi la realtà come spesso accade è differente.
Se non ci fossero criteri di filtraggio, il piccolo fediverso in lingua italiana finirebbe per essere quasi invisibile nel mare dei post in lingua inglese. Similmente se il criterio di caricamento dei contenuti fosse puramente cronologico, la maggior parte degli utenti vedrebbe sulla propria timeline contenuti di nessuna rilevanza. La conseguenza di ciò è ovvia, anche i social distribuiti usano algoritmi per selezionare i contenuti da mostrare agli utenti con il criterio linguistico e la rilevanza che sono solo due dei possibili parametri.
Aggiungiamo a questo che ogni istanza è generalmente impostata per mostrare principalmente i contenuti nati sulla stessa e solo in spazi separati ciò che proviene da altre istanze e altri network. Di più, ogni istanza è libera di bloccare i contenuti di altre istanze con l’effetto di aver da tempo scatenato una battaglia ideologica in cui ogni amministratore si sente autorizzato ad escludere qualsiasi pensiero distante dal proprio. Un tipo di censura che può avvenire a più livelli, dal blocco vero e proprio di una istanza, alla sua esclusione dal flusso pubblico, fino al silenziamento di singoli utenti. Quest’ultimo ingrato titolo di demerito mi è anche toccato personalmente come ho potuto facilmente verificare incrociando i miei account su due diverse istanze; ma questa è una vicenda troppo lunga per parlarne qui 🙂
Scatole ideologiche?
La sommatoria di questi fattori rende il fediverso italiano un luogo a due facce. Si auto-descrive come un ambiente inclusivo e tollerante ma è pervaso da una malcelata intolleranza al pluralismo delle idee. Porta avanti una rabbiosa critica verso i social network commerciali, ma non ne modifica che in maniera marginale i meccanismi. Si fa baluardo della privacy ma sulla sua amministrazione vige la totale opacità. Indica come il male assoluto qualsiasi scopo commerciale, ma non disdegna anzi sollecita il coinvolgimento economico degli utenti senza rendicontare alcunché.
Alla fine ci si ritrova in un ambiente quasi completamente occupato da estremisti di sinistra, tutti molto allineati e scarsamente propensi alla discussione e quasi sempre ossessionati dall’idea di propagandare la propria ideologia a getto continuo. Per chi si identifica in questa descrizione, il fediverso italiano può essere l’ambiente naturale in cui indignarsi ad ogni sospiro, blaterare di un mondo migliore che non è mai esistito e pontificare su cosa dovrebbero fare/dire/pensare gli altri. Per tutti gli altri è un ambiente ostile, ottuso, opprimente da cui rapidamente si desidera solo evadere.
Ristretto o globale?
In onestà debbo dire che la situazione del fediverso in lingua italiana è in fin dei conti un distillato in scala minore di ciò che avviene su scala globale. Anche le grandi istanze internazionali di Mastodon sono territorio quasi esclusivo della sinistra politica. Una popolazione costituita in gran parte da transfughi dei social tradizionali, persone in cerca di un nuovo palco indignate perché altrove c’è spazio anche per idee diverse dalle proprie.
Peraltro una dinamica non troppo diversa si registra anche su BlueSky, eletto a nuova casa dalla sinistra statunitense in protesta contro la nuova proprietà di X. La stessa che ovviamente non aveva nulla da obiettare quando l’indirizzo della piattaforma era invece a loro favorevole.
Arrivati in conclusione credo che la domanda che ci si debba porre sia di prospettiva. I social network federati possono esistere raccogliendo ad ondate gli indignati e gli insoddisfatti dei social tradizionali? Possono sopravvivere senza inventare nulla di nuovo ma ricopiando pedissequamente i modelli dei network esistenti? Hanno un futuro che non dipenda dai bizantinismi del legislatore? [2]
Io credo che sia essenzialmente una questione di scala. La struttura del fediverso ben si presta a costruire comunità di piccole e medie dimensioni, incentrate su singoli temi, singole città, singole passioni. In questo ambito la federazione può essere utilizzata per seguire da un singolo account anche occasionali profili presenti su altre istanze, a patto di conoscerne la presenza per altre vie. Il passaggio ad una scala maggiore per diventare teatro della discussione pubblica e delle interazioni di gran parte dei cittadini digitali è invece a mio avviso fuori portata, almeno nel contesto attuale.
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Commenti? · L’immagine in questo post è stata generata tramite AI · 1. fedidb.org · 2. È sorprendente in quanti nel fediverso auspichino social network di Stato ed il blocco dei servizi commerciali.