4K è una di quelle siglette tanto care al marketing ma sostanzialmente vuote di valore proprio; un modo facile per caratterizzare prodotti altrimenti scialbi e tutti simili. I primi televisori 4K sono in giro da più di dieci anni e conosco più di una persona che ha letteralmente speso una fortuna per portarsene a casa uno dei primi esemplari. A volte, con un pizzico di cattiveria, mi diverte far notare loro come a due lustri di distanza quei due caratteri siano ben lontani dall’essere uno standard e che l’acquisto di quei televisori sia diventato una sorta di blocchetto di cambiali postdatate. Allo stato attuale infatti chi desideri davvero sfruttare la qualità del 4K deve necessariamente attingere ad un mercato di nicchia (dischi ottici Blu-Ray o paytv) a fronte di una offerta gratuita che è limitata a pochi canali sperimentali e a qualche youtuber desideroso di mostrare meglio i pori della propria faccia.
La questione riemerge puntuale ogni volta che un grande evento arriva sugli schermi televisivi. Ora è la volta degli europei di calcio 2024, ma lo stesso discorso si presenta ciclicamente. Chi ha investito in apparecchi 4K vive come una ingiustizia il semplice fatto che quello specifico contenuto sia disponibile [1] solo a risoluzioni inferiori, arrivando a teorizzare oscure macchinazioni ed invocando interventi normativi che impongano un passaggio forzato al nuovo standard. Un meccanismo già visto all’opera con il FullHD e con mille altre presunte innovazioni tecnologiche che i più hanno deciso beatamente di ignorare (qualcuno ha detto DAB? [2]).
Ma i limiti del 4K erano noti fin dall’inizio a cominciare da quello più ovvio, la maggior parte del materiale video esistente che costituisce i magazzini delle emittenti non è in Ultra HD, spesso anzi non è neppure il Full HD e nonostante ciò rimane interessante per un vastissimo pubblico magari più sintonizzato sul valore dell’opera che non sulla sua risoluzione. Di più, anche molta della produzione attuale non viene girata in 4K perché questo formato richiede ovviamente hardware dedicato e fa scalare verso l’alto i costi di produzione, trasmissione e memorizzazione. Può suonarvi strano che un broadcaster abbia difficoltà a realizzare quello che oggi sembra alla portata di molti smartphone di fascia alta. Ma in tal caso stareste ragionando su scale differenti. La catena di apparecchiature professionali necessarie a gestire un video 4K nel suo intero ciclo (acquisizione, elaborazione, trasmissione, archiviazione) ha costi enormi a fronte dei quali solo una piccola parte dell’utenza avrebbe significativi vantaggi. Indovinate quale… (ma ci ritorno a breve).
È un discorso che potremmo facilmente estendere anche allo streaming. Trasmettere in 4K significa far esplodere letteralmente la richiesta di banda e per ottenere un risultato decente anche la connessione del fruitore deve essere non solo veloce ma anche estremamente stabile. Fattibile certo, ma comunque costoso.
Dicevo che in tanti sembrano addossare la colpa dello scarso successo del 4K alla proverbiale lentezza del legislatore che avrebbe potuto forzare i tempi imponendo il passaggio al nuovo formato. Qui ci sarebbe davvero da discutere a lungo a cominciare dal fatto che 4K come accennato di per se significhi poco o nulla, che esistano molti formati differenti accomunati sono dalla medesima sigla e che non esiste standardizzazione neppure sui codec da impiegare. Ma la discussione è più generale e non riguarda tanto la parte tecnica quanto quella sociale.
Che aziende private in un settore libero facciano un po’ quel che vogliono è un dato che mi lascia abbastanza indifferente. Se interessante faccio le mie valutazioni, altrimenti mi limito ad ignorare. Non può però essere lo stesso per le aziende che offrono un servizio pubblico ne per quelle che hanno in gestione un bene pubblico come sono ad esempio le frequenze radio-televisive. In questo ambito il bene da tutelare non è il bilancio dell’azienda ne la soddisfazione dell’ego di chi ha speso cifre a cinque zeri per un televisore; il bene da tutelare è l’interesse pubblico e non dovrebbe esserci dubbio sul fatto che raggiungere nel modo migliore il maggior numero di persone sia prioritario rispetto al resto. Perché, è bene chiarirlo, le frequenze sono un bene limitato e quindi far spazio ai canali 4K significa inevitabilmente toglierne ai canali in HD o in SD. Anzi, il bene pubblico in questo caso è così limitato che al momento non c’è neppure spazio per trasmettere tutto in HD per cui anche grandi gruppi editoriali debbono scendere a compromessi sulla qualità o scalare in basso alcuni canali verso la risoluzione standard.
Un concetto che in passato era stato ottimamente assimilato dal legislatore italiano, dal servizio pubblico e dall’industria di settore. Nell’era analogica della televisione italiana è stata adottata una tecnica che potremmo definire additiva che ha permesso di introdurre grandi innovazioni come il colore, la stereofonia, il Televideo senza obbligare l’utenza a cambiare apparecchio; semplicemente il contenuto aggiuntivo veniva ignorato dai dispositivi più vecchi e gestito invece da quelli più nuovi. Semplice ed elegante come risultato ma complesso ed ingegnoso come realizzazione.
Dunque la chimera del 4K finisce per essere una delle prospettive per descrivere questo nostro tempo. Ennesimo esempio in cui una trasversale classe privilegiata che può accedere prima e meglio di altri ad una tecnologia pretende che il resto del mondo si adegui anche a costo di forzare il percorso attraverso la normativa. E quello che accade sistematicamente con l’auto elettrica da un po’ di anni, ed è quello che ogni buona lobby di potere si prefigge di raggiungere con la propria azione. Ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano.
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[1] Vedi DDay.it, specie nella sezione commenti. [2] Vedi La radio DAB è già su un binario morto?